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La mia visita al Monte Popa (ovvero perché viaggiare con i mezzi di trasporto locali)

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Di modalità di viaggio ne esistono tante, ognuna per ogni gusto. C’è chi viaggia comodo e si sposta solo con il proprio trolley griffato al seguito, chi invece sceglie sempre e solo la soluzione più economica, ma più scomoda, e chi si inserisce nel mezzo, indeciso tra zaino e valigia, optando per qualche scomodità ma concedendosi anche qualche agio.

Io la maggior parte delle volte mi ritrovo a scegliere la via più difficile. Spesso finisco per maledire la mia scelta, ma alla fine vengo ricompensata: gli incontri che si fanno viaggiando con i mezzi di trasporto locali sono sempre unici.

Come mi è successo anche questa volta in Birmania.

Nel mio itinerario di viaggio di due settimane in Birmania volevo inserire anche una tappa al Monte Popa, un monte sacro dove secondo la leggenda vivono 37 nat, gli spiriti della tradizione animista birmana, non lontano (almeno così sembrava) da Bagan. Il come arrivarci non era del tutto chiaro, ma leggendo sulla Lonely Planet sembrava fosse possibile con un taxi collettivo, cioè un pick-up che trasporta la gente del posto, impiegando un tempo non del tutto precisato.

L’incognita tempo con me passa comunque in secondo piano davanti alla possibilità di viaggiare stretta (o schiacciata), mischiata con gli abitanti del posto, a sbirciare da dentro la vita di tutti i giorni (qualcosa che viaggiando su un bus turistico si perde del tutto).

Quindi è deciso: avrei preso il taxi collettivo. (C’è poi anche da dire che quando mi fisso su una cosa c’è poco da fare per farmi cambiare idea. Mi fisso. Punto). Arrivata in hotel a Nyang U, la zona più economica di Bagan, scopro che tramite l’hotel è possibile raggiungere il Monte Popa con un minivan turistico. L’idea non mi sfiora nemmeno. Io vado con il taxi collettivo  (perché scelgo sempre la strada più in salita?).

Esco dall’hotel per andare a prendere questo fantomatico pick-up che dovrebbe partire verso le 8.30. Fin qui apparentemente tutto facile… Ma non è proprio così. Prima di tutto si tratta di capire da dove parte il taxi. La guida dice dalla zona a sud del mercato. Dove sarà il mercato? Chiedo. Passo i primi dieci minuti andando avanti e indietro, ogni volta indirizzata in una direzione diversa (“A cinque minuti da qui, vai sempre avanti a sinistra!”, “Sono dieci minuti a piedi, a destra!”.. – altri fanno solo gesti).

Il mio sesto senso ha visto bene a farmi partire in anticipo. Finalmente trovo il mercato e individuo un mezzo sgangherato dove sta salendo della gente. Ovviamente nessuno parla inglese. Questo è il taxi che va al Monte Popa? Qualche sguardo indagatore, qualche sorriso, l’autista mi guarda e annuisce: sì, ho trovato il taxi collettivo. Partiamo quasi in orario (che da queste parti è un gran lusso) e carichiamo persone in continuazione, anche quando ormai di posto non ce n’è praticamente più.

Stretta tra le donne cariche di borse che sono state al mercato di buon’ora e ragazze armate di smartphone, partono i tentativi di comunicazione. Le parole in birmano che ho imparato stanno sulle dita di una mano, ma basta proferirne una (sicuramente con la pronuncia e l’intonazione sbagliata) perché nascano grandi sorrisi. Una signora seduta di fronte a me inizia a farmi lunghi discorsi e quindi si offre di farmi da maestra di birmano: mi insegna lei le parole, io devo solo ripetere!

La ragazza in parte a me ciondola sulla mia spalla e io mi accorgo che è parecchio che sono su quel pick-up. A un certo punto mi viene da domandarmi come mai la guida dice che da Nyang U al Monte Popa ci vogliono due ore e in un altro punto un’ora: sono passate due ore da quando siamo partiti, ma di monti ancora nessuna l’ombra. Solo campagna.

Con mio grande sconforto riesco a capire che il taxi è diretto a Kayaukpadaung, il villaggio ai piedi del monte Popa e da lì dovrò prendere un altro taxi per salire al monte. A che ora arriverò al Monte Popa? Ma, sopratutto, arriverò? Sarebbe forse stato meglio prendere il minivan come tutti i turisti fanno?

mezzi-locali-birmania

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Arrivati a Kayaukpadaung, il taxi si ferma; io mi preparo a scendere, ma invece no, scopro lo stesso taxi prosegue fino al Monte Popa (meglio così!). Ancora 45 minuti. Quando arrivo al monte oramai sono le undici e ho poco più di due ore a disposizione per riuscire a riprendere l’unico taxi che torna a Nyang U, quello delle 13.

Se l’andata era sembrata un viaggio infinito, il ritorno è ancora più rocambolesco.

Una famiglia mi da uno strappo fino al bivio dove mi ha lasciato il taxi la mattina. Nessuno ha idea da dove parta il taxi, l’unico della giornata, per Nyang U. Interpello tutti i driver che vedo ma tutti scuotono il capo e mi fanno cenno di no con la mano. Passa mezzora, ma del mio mezzo nessuna traccia. Sono ormai rassegnata e chiedo di condividere un taxi privato con altri turisti, ma non c’è posto. Il minivan che riporta i turisti dal Monte Popa (quello che avrei potuto prendere in alternativa) si ferma ed è disposto a farmi salire ma i poveri turisti già stipati da morire imprecano contro l’autista e io rinuncio.

Finalmente trovo il mio pick-up: eccolo lì in un angolo, ancora mezzo vuoto, ad aspettare. Ovviamente il trabiccolo fa sosta al villaggio e questa volta devo davvero cambiare mezzo. Ma questo è niente. Prima di tutto devo aspettare.

Ne approfitto per guardarmi intorno. Passano sconquassati carretti trainati da cavalli stanchi, biciclette cariche di mercanzia, un gruppo di monache che chiedono l’elemosina quotidiana. Davanti al pick-up fermo un venditore si mette in bocca il betel e inizia a masticare mentre mi guarda pacifico con le sue labbra tinte di rosso.

In mezzo a questo sereno scorrere della vita arriva una signora. Borsa sotto braccio, si mette in attesa fuori dal pick-up. A un certo punto squilla un telefono (non sto parlando di un telefono cellulare, lo squillo è proprio quello di un telefono di casa). Da che parte arriverà? Lo squillo persiste, con naturalezza, quasi che fosse la cosa più normale del mondo, la signora scosta un panno che copre la sua borsa e ne estrae un telefono fisso. Alza la cornetta e si mette amabilmente a parlare.

Io sono esterrefatta. Come è possibile tutto ciò? (ancora oggi non ho capito come sia stato possibile). Mi sto ormai convincendo di essermi sognata tutto (causa stanchezza), quando il telefono risquilla. Ormai è tempo di partire. La signora sale sul pick up e trova posto davanti a me. Alla spicciolata arrivano i passeggeri: uomini, donne, ragazze, tutti carichi di pacchi, incuranti della mia presenza mi si siedono accanto. Dentro di me li ringrazio perché mi fanno sentire a casa, nel posto giusto in cui dovrei essere, come una di loro.

Il viaggio riprende tra soste inspiegabili, fermate in mezzo alla campagna, con il pick-up che prosegue a trenta all’ora prendendo in pieno tutte le buche lungo la strada. La ragazza in parte a me mi si addormenta sulla spalla, un bambino piccolo mi sbircia serio dalle braccia della madre, le vecchine mi sorridono compiaciute.

Quando torno a Nyang U, ormai nel tardo pomeriggio, il pensiero va subito a “se solo avessi preso il minivan con gli altri turisti”, ma poi mi fermo a pensare. Se avessi preso il minivan con gli altri turisti non avrei goduto della stessa prospettiva sulle cose e sulle persone. Non avrei conosciuto le persone che ho incontrato sul taxi collettivo. E, soprattutto, non avrei incontrato la signora con il telefono a filo.

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2 comments

  1. Ciao,Sei sicuro che non ci sia un messo per tornare a Nyang U dopo le 13.00?Ti chiedo perche sto cercando di pianificarmi la giornata.Al limite conosci la distanza dal monte alla citta a piedi?

    • Ciao Stefano, al rientro alla fine ce l’ho fatta ma ho dovuto cambiare mezzo e aspettare un po’. Ma era il 2015, magari ora ci sono mezzi in più

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