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Cosa mi ha lasciato il Myanmar

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È passata solo una manciata di giorni dal mio rientro dal Myanmar. La ferita è ancora fresca. Le emozioni stanno ancora facendo il loro corso, non si sono ancora sedimentate. Per cercare di fare finta che io fossi ancora là, a pensare a come muovermi di tappa in tappa, ho scritto un primo post in cui racconto il mio itinerario di due settimane, un primo post pensato per raccogliere tutte le informazioni tecniche e pratiche per chi sta pensando a un viaggio in Myanmar e ha qualche dubbio su come muoversi.

Oggi vi voglio parlare invece solo di emozioni e lasciar defluire i miei pensieri. Voglio raccontarvi quello che il Myanmar mi ha lasciato.

Vi descrivo come mi sento in questo momento: triste ed entusiasta al tempo stesso. Triste per quel tempo volato troppo in fretta (ma del resto non si può avere il lusso di stare via cinque mesi ad ogni viaggio) e per ritrovarmi qui, in questa realtà troppo lontana e troppo diversa, quasi mi fossi appena svegliata da un sogno. Avete presente la sensazione quando ci si sveglia da un sogno bellissimo? Ci si sente pervasi dalla dolcezza, dall’emozione ancora viva di qualcosa di meraviglioso che ci ha appena coinvolti, ma allo stesso tempo ci si sente tristi per via di quella sottile malinconia che la coda del sogno lascia con sé.

Ecco, quello che sento in questa fase post-Myanmar: un mix di dolcezza e nostalgia.

alba-a-bagan

Il Myanmar (anche se io preferisco continuare a chiamarlo Birmania) mi ha trasmesso dolcezza e serenità e  la sua gente mi è apparsa fiera e sincera, di una sincerità che sembra ancora non intaccata dai mali del turismo di massa. Li vedi passare con la loro longyi, la veste che si allacciano in vita e che usano tutti, sia uomini sia donne, e con il viso spalmato di tanaka, l’unguento ricavato da un estratto di una pianta usato per ripararsi dal sole e come tocco di bellezza e sei subito pervaso dalla bellezza.

La sensazione è quella di non aver mai trovato un posto del genere, un posto che sembra lontano anni luce dalla realtà a cui siamo abituati e che mi dà occasione di riflettere. Niente Starbucks, niente McDonald, l’occidente sembra un mondo lontanissimo in Myanmar. La globalizzazione sembra non essere ancora arrivata a fare danni e a intaccare tutto con il piattume generalizzante. In Myanmar la tradizione sopravvive (anche se viene spontaneo chiedersi per quanto).

Il Myanmar lascia trasparire tanti di quei tratti comuni che accomunano i paesi del Sudest asiatico (a cui sono tanto affezionata) ma mostra anche degli evidenti tratti distintivi, quasi che il Myanmar fosse un paese a sé in quell’angolo di mondo. Un paese che per essere capito e conosciuto meriterebbe di più di un paio di settimane di viaggio, ma che non lascia indenni: impossibile non restare colpiti.

Mi porto negli occhi e nel cuore l’onnipresente oro delle pagode birmane, i mercati ogni volta un trionfo di colori e di odori, il rosso delle labbra colorate dal betel, il porpora delle vesti dei monaci, la pace immensa dell’alba sul Lago Inle e il sole che colora un po’ alla volta la piana di Bagan che punteggiata come è di pagode è uno dei panorami più affascinanti che potessi aspettarmi. Mi porto nel cuore le strade di Yangon e le sue bancarelle di street-food crepitante di intingoli e di fritture, le guance strisciate di tanaka, la dolcezza degli sguardi, le caraffe di tè verde da spartire, la sabbia di Bagan, i taxi collettivi traboccanti di gente dove si sta stretti ma c’è sempre posto per tutti, il grande sorriso riappacificante del Buddha di Bago, tutti i cani magri e affamati a cui ho dato da mangiare, la scarpinata tra le piantagioni di tè a Kalaw, il viaggio in treno e le soste nelle stazioni traboccanti di vita e di merce, Mandalay con il suo traffico e la pace dei suoi templi, l’avventurosa salita alla Golden Rock, luogo sublime e meraviglioso, il viaggio infinito in pick-up per raggiungere il Monte Popa, la cena in un ristorante sgarrupato ma sincero lungo il tragitto per Bagan, vecchi manifesti di San Suu Kyi alle pareti, gli immancabili rotoli di carta igienica in tavola e un’atmosfera che non avrei mai voluto lasciare.

Ora ne sono quasi sicura: in una mia vita precedente devo essere nata lì, nella vecchia Indocina, perché non si spiega altrimenti come in quella parte di mondo io mi senta tanto a casa.

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4 comments

  1. Complimenti Claudia, sei riuscita davvero a trasmettere le meravigliose emozioni che questo viaggio ti ha lasciato!! E come se ce ne fosse ancora bisogno sei riuscita a far crescere ancor di più il mio desiderio di partire per la Birmania… spero che il 2016 sia l’anno buono! Vado subito a leggere il tuo itinerario!!

    • Ma grazie Mery! Guarda, la Birmania è davvero un posto speciale, se hai voglia di andarci questo è il momento giusto per farlo (prima che venga deturpata dal turismo). Fammi sapere!

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